La Grande Depressione (1929-1933)
La storia dell’economia industriale non è stata caratterizzata da uno sviluppo ininterrotto, ma da crisi economiche periodiche, ovvero cicli economici caratterizzati dalla crescita del reddito e della produzione, intervallati da momenti in cui essi diminuiscono.
Nell’economia industriale, a differenza di quella preindustriale, in cui le crisi economiche sono state causate da scarsità di cibo e di risorse improvvise con conseguente impennata dei prezzi dei beni disponibili, le crisi che si sono verificate sono state caratterizzate, invece, da un andamento opposto, ovvero di sovrapproduzione, dovuta al fatto che il sistema tendeva ad aumentare la produzione al di sopra di quanto il mercato è realmente in grado di assorbire (magazzini pieni, depositi che non trovano acquirenti e caduta dei prezzi).
Un esempio assolutamente significativo è rappresentato dalla crisi del 1929, che ha avuto il suo epicentro negli Stati Uniti , e che è stata la più grave crisi che il capitalismo abbia mai attraversato in tempo di pace, caratterizzando il periodo storico soprannominato come “Grande Depressione”.
Tale fase di forte depressione economica che afflisse gli USA, iniziò al termine di una lunga fase di crescita dell’economia americana. Gli anni ’20 furono, infatti, anni di espansione che videro un aumento consistente della produzione e del reddito, che si accompagnarono ad un’euforia nei mercati borsistici. In poche parole, ci fu un aumento delle valutazioni dei valori azionari e si diffuse l’idea che tale fase sarebbe durata per sempre e che investire i propri risparmi in borsa sarebbe stato un modo facile per arricchirsi.
Verso la fine degli anni ’20, quindi, un numero sempre crescente di cittadini americani investì i propri risparmi in borsa e altrettanti cominciarono ad indebitarsi presso le banche per poter comprare azioni. Il prezzo di queste ultime continuava a crescere costantemente e una volta acquistate, gli investitori avrebbero potuto venderle ad un prezzo più alto rispetto a quello di acquisto e dal ricavato avrebbero potuto rimborsare i debiti contratti in banca, ma anche trattenere un guadagno (speculazione).
Questa fase di crescita delle quotazioni azionarie, però, giunse ad un’inversione di tendenza: si verificarono devastanti crolli dei titoli azionari e così accadde anche all’andamento della borsa.
Il primo segnale fu il 29 ottobre del 1929, nel cosiddetto “giovedì nero”. Gli effetti di queste crolli furono drammatici perché diedero vita ad un atteggiamento di panico degli investitori, che si affrettarono a vendere le loro azioni al più presto nel timore di ulteriore crolli, con il risultato che si accelerò ancora di più la caduta dei titoli.
Inoltre, chi aveva acquistato in borsa grazie ai prestiti concessi dalle banche, non era più in grado di rimborsarli e per tale motivo, la crisi si trasmise alle banche stesse, che si ritrovarono ad avere crediti inesigibili che alimentarono un’ulteriore ondata di panico sulla solvibilità delle banche. Infatti, i risparmiatori, temendo che le banche non fossero più in grado di restituire le somme, affluirono in massa presso le banche esigendo i propri soldi depositati.
Di fronte a questa azione, le banche cercarono di recuperare liquidità facendosi restituire i soldi da altri tipi di clientela, come le imprese. Peccato, però, che fu proprio questo un altro passaggio importante attraverso il quale la crisi passò dalla finanza all’economia reale generando un circolo vizioso.
Infatti, le imprese, non vedendosi concessi crediti dalle banche a loro volta in piena crisi di liquidità, non erano in grado di anticipare i salari ai lavoratori, con la conseguenza che molti di loro vennero licenziati e la produzione diminuì; a loro volta, i lavoratori non avendo reddito da poter spendere, non erano in grado di acquistare e la diminuzione della domanda nei beni di consumo, soprattutto di quelli durevoli (diffusi velocemente grazie ai finanziamenti che le banche avevano concesso alle famiglie per poterli acquistare a rate negli anni ’20) diminuì drasticamente.
La diminuzione si accompagnò all’aumento del tasso di disoccupazione (rapporto fra persone disoccupate che hanno perso al lavoro e persone che stanno cercando il primo impiego e la popolazione attiva) che raggiunse nel 1933 un picco del 25% (un americano su 4 era disoccupato). Fortunatamente, il pieno funzionamento dell’economia americana si ripristinò nel 1945 grazie alla necessità di mobilitarla per l’entrata nelle Seconda Guerra Mondiale.